Agesilao Milano (San Benedetto Ullano (Cosenza), 12 luglio 1830 – Napoli, 13 dicembre 1856
Giovane patriota e rivoluzionario, nacque in una famiglia di origini arbëreshë da Benedetto, sarto, e Maddalena Russo,
piccola possidente terriera. Il padre, affiliato alla Carboneria, fu anche rinchiuso in carcere per le sue idee liberali. L'otto dicembre 1856, giorno della festa dell'Immacolata, tentò di uccidere, durante una parata militare, Ferdinando II di Borbone, re delle Due Sicilie. L'attentato fallì e Agesilao Milano, ventiseienne, fu catturato, torturato, condannato a morte e impiccato a Napoli.
Compì i primi studi nel seminario del suo paese, retto dallo zio Domenico, sacerdote. Ma non avendo alcuna intenzione di intraprendere la carriera ecclesiastica, l'anno dopo i genitori lo iscrissero al prestigioso collegio italo-albanese di sant'Adriano, a San Demetrio Corone, dove si formarono alcune delle più illustri figure del Risorgimento meridionale. In quel luogo, terrore dei borboni e che re Ferdinando II definì «covo di vipere» e «fucina di diavoli». Per lo storico Raffaele De Cesare, il Sant'Adriano fu, infatti, «una palestra dove per prima vennero accolti gli ideali di giacobinismo e di socialismo a sfondo anarcoide».
Agesilao Milano strinse amicizia con altri studenti, futuri patrioti. Tra loro, Attanasio Dramis di San Giorgio Albanese, Giovan Battista Falcone di Acri, Domenico Mauro di San Demetrio Corone, Antonio Nociti di Spezzano Albanese, Achille Frascino di Firmo, Guglielmo Tocci di San Cosmo Albanese. Nel 1848 partecipò ai moti insurrezionali insieme con molti altri studenti del collegio sandemetrese dove fu massiccia e di alto valore la rappresentanza degli italo-albanesi.
Combatté a Spezzano Albanese, Saracena e Campotenese all'ordine del generale di origini francesi, Ignazio Ribotti, conte di Molières, contro le truppe borboniche del generale Ferdinando Lanza. Arrestato e condannato al carcere duro, venne amnistiato nel 1852. Dopo un periodo di crisi religiosa, pensò di intraprendere la carriera ecclesiastica, anche per motivi economici, entrando nell'Ordine dei domenicani. Sempre in quell'anno, fu arrestato e accusato di complotto contro la corona, durante una visita di Ferdinando II a Cosenza. Ma al processo venne assolto. In particolare, secondo Antonio Nociti, suo compagno di studi e di ideali, Agesilao Milano si appostò, alla periferia di Spezzano Albanese, per sparare al re, proveniente da Castrovillari, la mattina del 5 ottobre 1852 e il giorno dopo, nuovo tentativo, durante una parata militare per le strade di Cosenza. Entrambi i progetti fallirono perché le truppe borboniche erano ben piazzate proprio per il timore di un attentato al sovrano.
Costretto a lasciare San Benedetto Ullano perché sospettato di avere avuto una relazione con una donna di nome Penelope, moglie di un suo cugino, Oloferne Conforti, detenuto politico.
Nel maggio del 1856 chiese di sostituire il fratello Ambrogio, sorteggiato nella leva di quell'anno. Grazie ad alcune lettere di presentazione, tra cui una del sindaco di Cosenza, riuscì, pur avendo superato l'età e nonostante il suo passato, a farsi assegnare alla settima compagnia del III battaglione cacciatori di stanza a Napoli, cui capitava di trovarsi vicino al re durante le parate.
Nella capitale, Agesilao Milano incontrò alcuni compagni del collegio: Antonio Nociti, Raffaele Triolo, Giuseppe Fanelli, Giovan Battista Falcone e l'amico più stretto Attanasio Dramis. Entrò in contatto con mazziniani, liberali e cospiratori. Nei loro incontri nella casa di Falcone, al sesto piano di un palazzo in via Forno Vecchio, espose il suo progetto di regicidio. Ne fu subito sconsigliato. Dramis fece presente che l'atto sarebbe stato vano se non fosse stato seguito dall'insurrezione popolare.
Ma il giovane sanbenedettese non desistette: il tiranno deve morire, ripeté agli amici. Così per lui la grande occasione si presentò l'8 dicembre del 1856. Quel giorno, Ferdinando II con tutta la famiglia e alti funzionari governativi e nobili del suo seguito, assistette alla messa per la festa dell'Immacolata. Dopo la celebrazione, il sovrano, a cavallo, passò in rassegna le truppe, circa venticinquemila soldati, schierate a Campo di Marte, l'attuale collina di Capodichino. A metà della parata, Milano uscì dai ranghi e si lanciò contro il re a cavallo. Ma non potendo caricare subito il fucile, fu costretto a usare l’arma bianca, riuscendo così a colpire il sovrano con un colpo di baionetta che fu attutito dalla fondina della pistola. Alcuni dicono per l'impennarsi del cavallo che ne deviò il colpo, altri perché il re, temendo un attentato, indossava una corazza a maglia sotto il suo lussuoso abbigliamento militare. Milano era pronto per lanciarsi in un secondo attacco, quando, dalla folla ammutolita, arrivò un ufficiale della guardia reale a cavallo, il colonnello degli ussari Francesco de La Tour, che lo scaraventò a terra permettendone l'arresto. Il re, colpito al fianco, dominò ogni emozione e fece proseguire, come se niente fosse, la sfilata. Poi, per dare prova della sua forza, nello stesso pomeriggio sfilò a cavallo per via Toledo, anche contro i consigli dei medici di corte.
Al giovane italo-albanese, portato al carcere di Castel Capuano gli furono sequestrati alcuni oggetti, tra cui una Bibbia, una copia di De regimine principum di Tommaso d'Aquino e alcune sue poesie. Ricevette anche la visita del generale Demetrio Lecca che invano gli propose, in cambio della salvezza, di rivelare i nomi dei complici senza alcun risultato, perché l'atto era stato da lui solo ideato ed eseguito. Fu persino condotto dal comandante albanese del reggimento Real Macedone, Lek Dukagini, amico
del Milano e degli altri italo-albanesi residenti a Napoli, il quale cerco invano di strapparli i nomi di altri presunti congiurati. Alla fine Dukagini lo investì chiamandolo traditore e assassino. Agesilao rispose per le rime rinfacciandogli la sua condizione di mercenario: «Tu disonori l'Albania, non io che muoio per la felicità dei popoli».
Durante il processo, Milano, smentì anche la tesi del suo difensore d'ufficio, Giocondo Barbatelli, che tentò di sostenere l'infermità mentale, e rivolgendosi ai giudici disse: "Vi prego di far giungere ai piedi del sovrano l'umile preghiera di visitare le sue province per vedere a che son ridotti i suoi sudditi". Sottoposto per giorni a crudeli torture, il 12 dicembre fu condannato a morte. Il giorno dopo, alle sei del mattino, salì sul patibolo, in piazza Mercato, fuori Porta Capuana, con un saio nero, l'abito dei condannati a morte, i piedi scalzi, il volto coperto da un panno, scortato da un plotone di cinquanta militari, e sul petto un cartello con la scritta «uomo empio». Le ultime sue parole, prima che il cappio gli strinse il collo, furono: «Viva l'Italia, viva l'indipendenza dei popoli». Subito dopo, il suo corpo fu gettato nella fossa comune del cimitero della vicina chiesa del Carmine.
Eseguita la sentenza di morte, si scatenò la repressione della polizia borbonica sui calabresi e sugli arbëreshë residenti a Napoli e in Calabria dove il governo spedì il commissario Salvatore De Spagnolis, noto per la sua ottusa ferocia, col compito di arrestare i componenti della famiglia Milano, i compagni di collegio dell'attentatore e tutte le persone sospette di liberalismo. Ma se i borbonici dipinsero Agesilao Milano come un criminale e un traditore, i repubblicani lo esaltarono come un eroe. Giuseppe Mazzini fece coniare una medaglia commemorativa in suo onore, qualificandolo come "martire". La sua vicenda appassionò talmente tanto Giuseppe Garibaldi che una volta diventato dittatore di Napoli, varò un provvedimento che garantiva un vitalizio mensile di 30 ducati alla madre e una dote di duemila ducati alle sorelle. Ma Cavour fu contrario a questo provvedimento e dopo l'Unità d'Italia, lo fece abrogare. Il nome di Agesilao Milano è inciso in una delle due lapidi all'ingresso di Palazzo San Giacomo, sede del Comune di Napoli, tra i 116 patrioti caduti nella lotta contro i Borbone.
Per gli arbëreshë di Calabria, in particolare, Agesilao Milano rappresenta lo spirito di un popolo che non ha mai sopportato l'oppressione e che ha sempre mantenuto un atteggiamento non servile e non incline a compromessi. Un popolo pronto a battersi per gli ideali di libertà e di progresso civile e sociale che gli hanno permesso di conservare fino ad oggi lingua, usi e costumi. (Antonio Scura) © ICSAIC 2024 - 01
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Nota biografica
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- Raffaele De Cesare, La fine di un Regno, Capone Editore & Edizioni del Giglio, Lecce 2005;
- Domenico Capecelatro, L'attentato a Ferdinando II di Borbone, Gallina 1975;
- Eugenio Floritta, Rivoluzione e tirannide, Clamis e Roberti, Macerata 1863;
- Pasquale Villani, Agesilao Milano o il martire di Cosenza, Chiurazzi, Napoli 1866;
- Felice Venosta, Carlo Pisacane, Agesilao Milano e altre vittime napoletane, Milano 1864;
- Giacinto De Sivo, Storia delle Due Sicilie dal 1847 al 1861, Trieste 1868;
- Domenico Cassiano, Democrazia e socialismo nella comunità albanese di Calabria: Attanasio Dramis, Edisud, Roma 1968;
- Nicola Nisco, Gli ultimi trentasei anni del Reame di Napoli, Roma 1889;
- Harold Acton, Gli ultimi borboni di Napoli, Giunti, Firenze 1999;
- Giuseppe Campolieti, Il re Bomba: Ferdinando II, il Borbone di Napoli, Mondadori, Milano 2001;
- Carmela Galasso, Biografie di personaggi noti e meno noti della Calabria, Pellegrini, Cosenza 2009;
- Francesco Bugliari, Il sacrificio di Agesilao Milano, Italalb, Roma, 1957;
- Giuseppe Abbruzzo, Giovan Battista Falcone, segretario della Spedizione di Sapri, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2011;
- Michelangelo Mendella, Agesilao Milano e la cospirazione antiborbonica del 1856, Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano, Roma 1974;
- Leo Pollini, La tragica Spedizione di Sapri (1857), Mondadori, Milano 1935;