Pasquale Staglianò, [Chiaravalle (Catanzaro) 26 febbraio 1830 - Avellino, 20 maggio 1896]
Figlio di Giuseppe e di Francesca Paola Francica, nacque e in una ricca e distinta famiglia di Chiaravalle, "Y Staglianos". Il padre morì a solo 28 anni quando egli aveva pochi mesi. Ancora bambino fu quindi inviato nel seminario di Mileto dove completò gli studi a 16 anni, già attratto dagli ideali costituzionali portati avanti dalla congrega clandestina i Figlioli della Giovane Italia, promossa da Benedetto Musolino, che non era legata alla Giovane Italia di Mazzini. Tornato a Chiaravalle, ancora diciassettenne fu nominato comandante della Guardia nazionale.
La sua vita fu quella di un patriota liberale che, nonostante arresti e condanne, lottò contro il Borbone e per l'unità d'Italia. Prese parte, ancora giovanissimo, ai moti di Cosenza del 1848 dove Domenico Mauro, Benedetto Musolino, Pietro Mileto e Giuseppe Ricciardi costituirono un comitato di salute pubblica che di fatto fu un governo rivoluzionario. Ancora diciassettenne, infatti, come scrisse Nicola Nisco, «corse in campo per difendere la costituzione delle libertà pericolante per la nazione in augurata dare Ferdinando ». Assieme a tanti altri calabresi, combatté al Passo dell'Angitola contro il generale Mosé Nunziante. La colonna rivoluzionaria, che aveva occupato Catanzaro, Nicastro e Francavilla Angitola, aveva creato un campo a Filadelfia ma nulla poté contro le forze preponderanti del generale borbonico che, muovendo da Monteleone, l'odierna Vibo Valentia, si scatenarono con eccidi e rappresaglie. Sciolto il campo di Filadelfia, Staglianò fu catturato assieme a un gruppo di siciliani, giunto in Calabria per dare manforte ai rivoltosi, che tentava la fuga verso l'isola. Nonostante la sua giovane età , il suo arresto rappresentò una sorta di "trofeo" per il generale Nunziante che inviò al ministro di Grazia e giustizia il seguente dispaccio: «L'Ill.mo Sig. D. Pasquale Staglianò, ricercato a morte per l'imputazione di reato politico contro l'interna sicurezza dello Stato, fu dalla P. Forza assicurato alla giustizia. Adempio quindi al dovere di manifestarlo all'E. V. perché si compiaccia di rimanerne intesa ».
Incominciò allora per il giovane calabrese un lungo drammatico periodo. La Gran Corte criminale speciale di Catanzaro lo condannò alla pena capitale, in quanto colpevole di complicità negli attentati contro la sicurezza interna dello Stato e quindi perché «essendo stato il suddetto Staglianò nominato in quel tempo comandante della guardia nazionale della di Chiaravalle, partì per il campo di Filadelfia allo scopo di combattere contro le truppe del re ». Come terzo capo di imputazione, gli venne addebitato di avere costituito una banda armata per «distruggere e cambiare la forma del governo borbonico, sommo delitto di lesa maestà ».
La pena capitale, con decreto reale del 12 luglio 1952, fu ridotta di "due gradi", cioè a 25 anni di carcere duro. Fu rinchiuso quindi a Nisida, fino a quando il governo, temendo un intervento della flotta inglese per liberare i condannati politici, decise si spostarli. Iniziò allora il suo vero e proprio calvario. Con due compagni di Nisida e 17 prigionieri che si trovavano a Procida, fu condotto nell'inferno del carcere di Montefusco, che ufficialmente era stato già chiuso nel 1845 e non aveva nemmeno giacigli, al freddo e al gelo sotto una asfissiante vigilanza. In quelle condizioni inumane si ammalò gravemente e di artrite, tanto da dover essere ricoverato in un cosiddetto ospedale realizzato al secondo piano dello stesso carcere. Nel 1855, con altri prigionieri, fu trasferito al carcere di Montesarchio, in condizioni ancora più rigide. Negli otto anni di prigionia, tuttavia, non piegò mai la testa e la sua fede non vacillò. Commutata la pena in esilio nel gennaio 1859 una nave doveva portarlo in America con altri 65 proscritti ma, per timore di attentati, li sbarcò in Islanda da dove il 6 aprile dell'anno successivo raggiunsero finalmente Torino. Prese parte alla spedizione dei Mille. Riacquistata la libertà , Staglianò, che nelle sue varie peregrinazioni nei bagni penali del Borbone era stato sempre seguito dalla madre «or a piedi, ora in vettura » (la donna era andata a Montefusco dalla lontana Calabria nel cuore dell'inverno per visitare il figlio), decise di stabilirsi ad Avellino che scelse come sua seconda patria, pago - come spesso egli stesso ribadiva -di avere compiuto il suo dovere di italiano. Ad Avellino, dove fu nominato esattore delle privative, nel 1865 sposò Elena Vetroni, dalla quale ebbe sei figli, Giuseppe, Nazareno, Adolfo, Bettina, Elvira e Francina. La moglie era sorella di Achille Vetroni che più volte fu consigliere comunale e sindaco della città , nonché direttore del periodico la «Sentinella irpina », il quale nell'ultimo ventennio dell'Ottocento e nei primi anni del nuovo secolo fu il vero protagonista della vita politica locale.
Staglianò entrò nell'agone politico. Fu assessore comunale supplente fino al 1883 e con altri consiglieri si schierò contro il proprio sindaco. Appoggiato dai giornali «Sentinella » e «Gazzetta di Avellino » propose la propria candidatura nelle elezioni dell'anno successivo e fu eletto sindaco della città , incarico che ricoprì per più di un anno, risanando il bilancio comunale e restando in prima linea nel combattere una epidemia di colera.
La sua formazione risorgimentale lo portò in seguito a mettersi da parte, non approvando la politica clientelare del cognato.
Morì all'età di 66 anni.
Chiaravalle gli ha intitolato una strada cittadina, accanto a uno dei palazzi di famiglia. Un suo omonimo e parente nel 1909 fu eletto deputato del collegio di Chiaravalle Centrale. (Pantaleone Andria) © ICSAIC
Nota bibliografica
- Al martire di Partenope Pasquale Staglianò, Tip. Fazio, Napoli 1896;
- Nicola Palermo, Raffinamento della tirannide borbonica, ossia i carcerati in Montefusco, Tip. A. D'Andrea, Reggio 1863;
- Antonio Sarubbi, Pasquale Staglianò nella rivoluzione calabrese del 1848 e nella vita politica e amministrativa di Avellino di fine Ottocento, «Atti della Accademia Pontaniana », vol. XLV, 1926, pp.337-347;
- Angelomichele De Spirito, Niccola Nisco: Una vita per la patria e l'amore coniugale, Studium, Roma 2019.