Vittorio Cappelli, storico dell’Unical e direttore dell’ICSAIC, per il 25 Aprile ripercorre, in un articolo pubblicato su I Calabresi, il contributo calabrese alla caduta del regime.
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Il contributo calabrese alla caduta del regime si manifestò in vari modi, spesso a seconda delle classi sociali d’appartenenza. Se in tanti si unirono alla Resistenza, altri – anche celebri – si opposero a Mussolini in forme più blande, ma non per questo di poco conto.
Alla vigilia di questo particolarissimo 25 aprile, in cui si festeggia, dopo ben 78 anni, la liberazione dal fascismo, il mio pensiero corre spontaneamente a Vittorio Foa, illustre padre costituente e personalità tra le più fertili e vive della sinistra italiana.
Foa nel 1935 – lo stesso anno in cui come giovane militante clandestino di Giustizia e Libertà veniva arrestato e poi condannato dal Tribunale speciale fascista a 16 anni di carcere, scontati senza interruzione fino al ’43 della caduta del fascismo – scriveva che «i luoghi comuni si sono impadroniti di tutta l’intelligenza, dominano incontrastati nella cultura accademica, addormentano i giovani; la loro tirannia assoluta è mille volte più intollerabile delle selve di baionette. Ai luoghi comuni del fascismo si sono contrapposti i luoghi comuni dell’antifascismo».
Pur cospirando spericolatamente contro il fascismo, infatti, Foa e i suoi compagni rifiutarono di definirsi “antifascisti”. Molti anni dopo, ricordando quei tempi giovanili, Foa avrebbe spiegato che «quella espressione di pura negazione ci disturbava, ci definiva solo per negazione e disconosceva in qualche modo la nostra positività. Preferivamo definirci postfascisti per affermare il nostro disegno per il futuro».
L’antifascismo oltre il fascismo
Bene, sono passati cent’anni dall’avvento al potere del fascismo e ci ritroviamo in una situazione imprevista. Foa, che appena venticinquenne si accingeva a passare otto anni della sua esistenza nelle carceri fasciste, già guardava oltre il fascismo. Noialtri, malgrado la strategia della tensione, i tentativi di colpo di stato, le tragedie provocate dal neofascismo stragista, pensavamo, alla fine del Novecento, di esserci lasciati alle spalle finalmente il fascismo e con esso l’età dei totalitarismi. Ed ecco invece che ci troviamo a fare oggi i conti con un governo composto in buona parte da “nipotini” del ventennio, che, faticando ovviamente ad adeguarsi alle regole e ai valori della nostra Costituzione antifascista, riesumano armamentari ideologici che si pensava ormai consegnati al passato e depositati nei cassetti della storia.
Che fare dunque in un contesto politico per tanti aspetti così “anacronistico”? Intanto, occorre prendere atto che non si tratta di una questione soltanto italiana. Viviamo infatti un tempo in cui tradizionalismi, nazionalismi e razzismi, praticati spesso in modo rozzo e violento, attraversano l’Europa e le Americhe, dalla Polonia, dai paesi baltici e dalla Scandinavia agli Usa di Trump e al Brasile di Bolsonaro.
Il fascismo oggi
Io credo che per combattere queste derive politiche e culturali, occorra misurarsi coi problemi del presente e del futuro, senza cadere nella trappola di una contrapposizione ideologica stereotipata, che ci vorrebbe con gli occhi rivolti al passato.
Neppure è il caso, credo, di scendere sul terreno delle becere esternazioni di alcuni ministri del governo Meloni, che testimoniano la loro miseria culturale. Il “fascismo” di oggi è riconoscibile certamente nella retorica identitaria, nella paura e nel rifiuto dell’altro, nel rigetto dei migranti, nel bellicismo atlantista. Il pericolo per la democrazia, peraltro, è sì nelle vocazioni autoritarie e presidenzialiste, ma è soprattutto nello svuotamento delle istituzioni democratiche, nella distanza ormai abissale che separa il mondo della politica dal mondo reale, nella voragine che allontana chi pretende di decidere da chi si rifiuta anche di andare a votare.
L’antifascismo in Calabria
Detto questo, quale può essere il modo più produttivo e fertile per celebrare questo 25 aprile? Piuttosto che lasciarsi andare alla retorica consolatoria delle bandiere al vento, credo che possa essere utile riandare alla storia dell’antifascismo e della resistenza, cercando soprattutto di coglierne la ricchezza e la forza nella sua pluralità e nelle sue varie declinazioni, sulla base delle quali si è via via costruita l’Italia democratica, repubblicana e antifascista. Con questa postura si può ben celebrare il 25 aprile anche in Calabria.
Ci vollero le ricerche pionieristiche svolte 30 anni fa da Isolo Sangineto (I Calabresi nella guerra di liberazione. 1°. I partigiani della provincia di Cosenza, prefazione di Guido Quazza, Pellegrini 1992), per comprendere che anche questa nostra regione prese parte alla resistenza antifascista attraverso molti suoi figli, anche se la Calabria fu ben presto liberata dagli Alleati. Sangineto, senza alcuna concessione alla retorica celebrativa, con passione civile e pazienza certosina, nella sola provincia di Cosenza individuò più di 800 “resistenti”. Tra questi occorre annoverare naturalmente i militari che dopo l’8 settembre del ‘43 si rifiutarono di collaborare con i tedeschi o di arruolarsi nell’esercito di Salò, oltre che i resistenti veri e propri che agirono nella guerra di liberazione.
I calabresi nella Resistenza romana (e non solo)
Isolo Sangineto riuscì a censire centinaia di cosentini che, trovandosi dopo l’8 settembre nell’Italia centro-settentrionale, presero parte attiva alla resistenza armata. Particolarmente numerosi furono i calabresi presenti nella resistenza romana, tra i quali occorre ricordare almeno i quattro martiri delle Fosse Ardeatine: Donato Bendicenti, di Rogliano; Franco Bucciano, di Castrovillari; Paolo Frascà, di Gerace; Giovanni Vercillo, di Catanzaro, le cui vicende ha ricostruito di recente Paolo Palma (in Rivista Calabrese di Storia del 900, 1/2021, consultabile anche on line). Né bisogna dimenticare il raro caso di una giovane donna, Walkiria Vetere, di famiglia cosentina, attiva a Roma nella Banda del Trionfale.
Nella circostanza del 25 aprile, non si può non ricordare, naturalmente, anche Dante Castellucci, di Sant’Agata d’Esaro, divenuto un mitico comandante partigiano in Lunigiana e passato alla storia col nome di battaglia di “Facio”. Di Castellucci, ucciso inopinatamente dai suoi stessi compagni al termine di un ingiusto processo sommario nel luglio del ’44, si è occupato per ultimo, in un libro ancora fresco di stampa, lo studioso Pino Ippolito Armino (Indagine sulla morte di un partigiano. La verità sul comandante Facio, Bollati Boringhieri 2023).
I perseguitati e gli oppositori
Ma è ai perseguitati e agli oppositori del fascismo durante il Ventennio che occorre tornare per non dimenticare il carattere oppressivo del totalitarismo fascista e la variegata partecipazione calabrese alla lotta antifascista. Vale la pena di rammentare che risale addirittura agli anni Settanta del Novecento la prima ricostruzione analitica della persecuzione fascista nella nostra regione (Salvatore Carbone, Il popolo al confino: la persecuzione fascista in Calabria, Lerici 1977), su cui è tornata più di recente Katia Massara (in Regione di confino. La Calabria (1927-1943), a cura di F. Cordova e P. Sergi, Bulzoni 2005).
Da quel repertorio ricaviamo che i calabresi colpiti dal provvedimento del confino di polizia furono poco più di 400 (dei quali, 149 nati in provincia di Reggio, 145 in provincia di Catanzaro e 98 in provincia di Cosenza, alcuni altri in varie province italiane o nelle Americhe). Quanto al colore politico dei confinati, più di cento sono definiti genericamente “antifascisti”, 77 “comunisti” e 37 “socialisti”. Ma sono ben 48 gli “apolitici”, 12 i “Pentecostali” e 3 i “Testimoni di Geova”. Il che vuol dire che la repressione poliziesca non aveva soltanto carattere politico, ma anche civile e religioso.
Se consideriamo, inoltre, la condizione sociale dei confinati, i dati più vistosi sono la cospicua presenza degli artigiani, circa 90 (tra i quali si contano 22 calzolai, 22 falegnami, 19 sarti, 8 barbieri e 5 tipografi); ma anche di contadini e braccianti (69). C’è anche un drappello di operai (14 muratori e 5 minatori) e ben 20 avvocati.
L’antifascismo “a bassa intensità”…
Se non sorprende tra gli antifascisti la numerosità di artigiani politicizzati, quest’ultimo dato degli avvocati rimanda a una componente dell’antifascismo calabrese che ha a che fare con il ceto medio e in particolare con i principali esponenti del notabilato politico democratico e progressista di età liberale. Il riferimento inevitabile è a Pietro Mancini e Fausto Gullo, entrambi assegnati al confino a Nuoro nel 1926.
Mancini e Gullo, come ho cercato di spiegare in altre occasioni, illustrano con le loro biografie politiche la lunga durata e i percorsi del notabilato calabrese, posto però con essi al servizio di una causa ideale che prometteva un grande rinnovamento sociale.
Durante il fascismo, Mancini e Gullo subirono per qualche tempo il confino e altre angherie, ma riuscirono poi a trovare forme di convivenza col regime svolgendo, pur senza rinunciare alle loro idee, la loro professione di avvocato con una certa tranquillità. Per ciò stesso si può dire che il loro antifascismo fu “a bassa intensità”, come accadde ad altri politici calabresi che avranno poi un ruolo nell’Assemblea Costituente, come Enrico Molé, Antonio Priolo, Vito G. Galati e Gaetano Sardiello (I Calabresi all’Assemblea Costituente, 1946-1948, a cura di V. Cappelli e P. Palma, Rubbettino 2020).
E quello radicale
L’antifascismo di altri fu, invece, assai più radicale. È questo il caso, ad esempio del comunista reggino Eugenio Musolino, deputato alla Costituente e poi parlamentare fino al 1956, che era stato spedito al confino nel ’26 e poi condannato dal Tribunale Speciale a 13 anni di reclusione. In libertà vigilata dal ’34, fu di nuovo arrestato nel 1940 e rimase carcerato e confinato fino all’estate del ’43.
Non diversa sorte ebbe il comunista cosentino Natino La Camera, stretto collaboratore e amico personale di Amadeo Bordiga: arrestato una prima volta nel 1923, fu assegnato al confino per cinque anni, dal ’26 al ’32, scontati con continui spostamenti, da Lampedusa a Ustica, a Ponza e a Lipari. Rientrato a Cosenza continuò imperterrito nell’attività cospirativa antifascista. Durante la guerra fu di nuovo arrestato e internato a Muro Lucano fino all’8 settembre.
Infine, a fianco all’antifascismo politico organizzato in clandestinità, bisogna cogliere anche l’antifascismo occasionale che era espressione più che altro di rabbia e disagio sociale. Non mancano, infatti, le persone spedite al confino per aver urlato frasi offensive nei confronti di Mussolini e del regime, o per aver cantato Bandiera rossa uscendo dall’osteria.
Pochi ma buoni
Per concludere, è evidente che sia nel caso dell’antifascismo praticato durante il Ventennio che nel caso della Resistenza si è trattato di minoranze attive, di “pochi” che si opposero a un regime e a una guerra avvertiti come ingiusti e oppressivi. Tuttavia quei “pochi”, come si è visto, sono stati espressione delle varie componenti della società calabrese, dal punto di vista socio-economico e politico, ma anche culturale e religioso. Hanno speso la loro coerenza e il loro coraggio, infine, non per se stessi ma per l’intera collettività e si mostrano ancora a noi come esempi ammirevoli di dignità e di forza morale.
Vittorio Cappelli
Storico delle migrazioni, Unical